giovedì 24 agosto 2017

Terrorismo, religioni, guerre. Sul Manifesto accenno di un dibattito che sarebbe utile approfondire seriamente.



Luciana Castellina dopo l’ attentato a Barcellona ha scritto sul Manifesto un commento  “Non aver paura di farsi qualche domanda “ dove ricordava come le guerre occidentali, soprattutto l’ aggressione di Bush all’ Iraq, siano state determinanti per l’ esplodere del terrorismo attuale.  
Un lettore è intervenuto sostenendo invece quanto siano proprio le religioni a rischiare di spingere alla violenza e Castellina gli ha risposto ribadendo la sua tesi pur concordando sul giudizio dell' autore della lettera.

Oggi il Manifesto ha pubblicato un breve contributo di Giuliana Sgrena ”Religione e terrorismo, qualche utile insegnamento dalle lotte algerine”.
t.
Per dimostrare che nella molte guerre, attuali e no, nel Medio Oriente la religione ha una posizione centrale, basta ricordare cosa rappresenta la città di Gerusalemme per molti credenti di fedi diverse. Ma l' argomento è enorme e non facile ed è  evidente che un eventuale dibattito rischia subito di essere dispersivo e poco utile.

Il mio forte interesse al tema è quello di un attivista contro la guerra che prova come può ad attirare più attenzione alle guerre della regione mediorientale e sarebbe contento che dibattessero sul rapporto guerre, religioni e terrorismo, ambienti diversi che si interessano da anni alla questione e che sono completamente non comunicanti tra loro

Per esempio il pacifismo laico e femminista di Sgrena e Castellina e i cristiani europei che dal 2011 sostengono la resistenza dei cristiani siriani nella tragica guerra che ha stravolto questo paese. Probabilmente comunicano reciprocamente molto poco anche ambienti che potrebbero sembrare vicini. Per esempio dall’ esterno sembra che sulla guerra siriana non abbiano nessuna linea di azione comune  la Comunità di Sant’ Egidio, i francescani di Aleppo, monsignor Khazen e padre Ibrahim, e l’ ambiente più tradizionale del pacifismo cattolico, come il Cipax di Roma e Alex Zanotelli.
Segnalo quindi l’ accenno di dibattito sperando in un suo utile approfondimento. 
Difficilmente questo avverrà ma farò il poco che posso fare per favorirlo.

Non aver paura di porsi qualche domanda
di Luciana Castellina
Brava Ada Colau a convocare subito una manifestazione a Piazza de Catalunya, nemmeno 24 ore dopo l’orribile massacro. Bravi i barcellonesi che a centinaia di migliaia hanno risposto all’appello gridando «no tinc por». E bravi i cittadini globali che si sono uniti a loro, piangendo per la ferita inferta alla città simbolo dell’accoglienza e dell’inclusione, ma anche per le proprie vittime: impressionante la cifra di 35 nazionalità. Hanno espresso, oltre alla pena per i corpi maciullati, la protesta per l’insulto che è stato fatto a quello che viene chiamato il «nostro libero modello di vita».
E però c’è qualcosa che non mi convince nella ormai ripetuta proclamazione dei nostri valori, non sono certa che la nostra idea di libertà sia davvero così acriticamente proponibile ad un mondo in cui la maggioranza degli esseri umani ne sono stati privati.
So bene che a proporre questo discorso si entra su un terreno scivoloso, quasi si volesse negare l’importanza dei diritti e delle garanzie individuali che la Rivoluzione francese ci ha conquistato, così come il sistema democratico-borghese che accorpa oramai quasi tutto l’occidente. Non vorrei scambiarlo con nessun altro sistema attualmente vigente, quale che sia la sua denominazione. Per questo, del resto, penso si debba difendere un’idea di Europa che lo salvaguardi dal vortice terrificante che attraversa il mondo.
E però non posso non chiedermi se questo modello, questa idea di libertà, possono davvero risultare convincenti per chi ne vive la contraddizione, per chi abita l’altra faccia del modello: una moltitudine di esseri umani, quelli che disperatamente attraversano il Mediterraneo e vengono respinti; chi vive nelle desolate periferie urbane e patisce una discriminazione di fatto (no, non «legale», per carità!); chi abita i villaggi del Sahel o mediorientali.
La nostra orgogliosa riaffermazione «non abbiamo paura» ha certamente un senso molto positivo: vuol dire non sopprimeremo la libertà, non ricorreremo ad antidemocratiche misure di polizia, non ridurremmo per garantirci sicurezza le nostre libertà. È un messaggio importante ed è bello che a Barcellona sia stato riaffermato a Piazza de Catalunya. Ma non basta, e, anzi, ripeterlo, se non ci si aggiunge qualche cos’altro, rischia di essere controproducente.
Siamo tutti consapevoli che la disfatta che l’Isis sta subendo sul territorio non rappresenta affatto la fine della minaccia terrorista. Che, anzi, lo smantellamento delle sue roccaforti potrebbe rendere anche più intenso il ricorso alle azioni di gruppo, o persino individuali, che colpiscono senza possibilità di prevedere come e dove. Sappiamo oramai anche che è ben lungi dall’essere esaurito il reclutamento di giovani jihadisti pronti a morire. Che provengono dall’Oriente, dal Sud, ma sempre più spesso anche dalla strada accanto. Contro di loro non c’è polizia che tenga, una sicurezza militare è impossibile.
La sola ancorché ardua via da imboccare sta innanzitutto nell’interrogarsi su cosa muove l’odio di questi ragazzi. Non l’abbiamo fatto abbastanza.
Non ci riproponiamo la domanda con altrettanta forza quando ribadiamo la superiorità della nostra idea di libertà. E così questo nostro atto di coraggiosa resistenza rischia di suonare inintellegibile a chi di quella libertà gode così poco. Perché chiama in causa non solo il nostro orrendo passato coloniale, le responsabilità per le rapine neocoloniali del dopoguerra, il razzismo di fatto, le sanguinose, offensive guerre che continuiamo a produrre con la scusa di portar la democrazia.
Queste sono responsabilità di governi che anche noi combattiamo, anche se dovremmo farlo con maggiore vigore. (Ha ragione Ben Jelloun che si è chiesto perché non abbiamo portato dinanzi alla Corte per i delitti contro l’umanità il presidente Bush, il maggiore artefice dell’esplosione jihadista).
E però c’è qualcosa che tocca a noi, proprio a noi di sinistra, fare: ripensare il nostro stesso, superiore modello di democrazia, ripensarlo con gli occhi dell’altro, dell’escluso, sforzarsi di capire la rabbia che induce al martirio.
Non per giustificarlo, per carità, e neppure per chiudere gli occhi sulle occultate manovre di potere che guidano e finanziano il terrorismo. Ma – ripeto – per capire e impegnarsi a ripensare il nostro stesso modello di civiltà, all’ individualismo che la caratterizza, tant’è che la democrazia la decliniamo sempre più in termini di diritti e garanzie personali, non come rivendicazione di un potere che deve riuscire a liberare l’intera umanità.
Penso che questo bisognerebbe gridarlo nelle piazze, aggiungendo un impegno politico al «non abbiamo paura».
L’Europa, che gli attentati vogliono colpire, è forse il meglio di questo orrendo mondo globale, ma non è innocente, non può essere riproposta semplicisticamente come punto d’approdo del processo di civilizzazione.
Religione e terrorismo, qualche utile insegnamento dalle lotte algerine
Di Giuliana Sgrena
 Ho letto – come sempre – con grande interesse l’articolo di Luciana Castellina di domenica. Ma mi intriga anche la lettera pubblicata sul manifesto del 23 agosto di Stefano Rossi e la risposta di Luciana.
Penso che da questo dibattito non si possa escludere la religione, perché il ricorso alla religione (tutte le religioni) è dovuto anche – o forse soprattutto – al venir meno di valori e di un progetto di società laico credibile.
Sono finite le ideologie, i valori della Rivoluzione francese (liberté, egalité, fraternité) non si possono ridurre alla libertà, certo importantissima. Perché se si dimentica l’uguaglianza (anche quella tra uomo e donna) e la fraternità, la libertà si coniuga con l’individualismo.
Oggi la religione propone un modello forte e totalizzante, soprattutto il modello dell’islam globale che dà un senso di appartenenza a una comunità che va oltre le frontiere e con l’Isis mette in discussione anche i confini imposti dal colonialismo.
Questa penso sia la forza dell’islam radicale. Che recluta non solo e non tanto tra i diseredati e gli emarginati ma anche tra giovani istruiti, anche europei e tra coloro che non erano musulmani e si convertono, uomini e donne.
Certo le guerre hanno contribuito a incentivare e mobilitare, ma l’idea del martirio è proprio legata alla religione, alla trascendenza.
Non posso però dimenticare l’esperienza algerina degli anni ’90, dove i fautori di uno stato teocratico si sono scontrati con la resistenza di una società che aveva fatto propri i valori della rivoluzione francese, e non certo per imposizione, anzi. 130 anni di occupazione hanno lasciato un astio implacabile degli algerini (tutti) contro i francesi ma anche una contaminazione nella lingua e nella cultura.
In Algeria si sono scontrati violentemente – circa 200.000 morti – due modelli di società uno teocratico e uno laico. Nessuno ha vinto. La violenza dei gruppi armati si è convertita al progetto globale. Questo è avvenuto in Algeria – ignorata dall’occidente – prima della guerra in Iraq, ma dopo la fine dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan, dove l’occidente aveva finanziato i gruppi che combattevano in nome della religione la «guerra santa» contro il comunismo. E pur di sconfiggere il comunismo… Ma poi i jihadisti sono tornati a casa e hanno continuato la loro «guerra santa» contro gli infedeli.
E a proposito di martirio non posso dimenticare un’intervista fatta a Islamabad a dirigenti di Lashkar-e Taiba, la sera prima che il gruppo che combatte in Kashmir finisse sulla lista Usa dei gruppi terroristici, quando uno di loro mi disse: «Stavamo combattendo nel Kargil su un ghiacciaio a 4.000 metri, le nostre truppe avevano il morale a terra, allora abbiamo deciso di introdurre gli attacchi suicidi».
E io: «Ma come, i kamikaze per sollevare il morale?!». «Ecco perché non vincerete mai – mi rispose – per noi la vita comincia quando per voi finisce».

Europa sotto attacco

 



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