sabato 7 novembre 2015

I Saud e i Wahhabiti - dall'enciclopedia Treccani

Risultati immagini per foto saudRisultati immagini per foto saudRisultati immagini per foto saudRisultati immagini per foto saudWAHHĀBITI
Enciclopedia Italiana (1937)
di Carlo Alfonso Nallino

WAHHĀBITI. - In arabo wahhābiyyah, al sing. wahhābī, è il nome che gli avversarî, seguiti dagli scrittori europei, diedero e dànno ai seguaci del movimento di rigorismo musulmano sunnita suscitato nell'Arabia centrale, un po' prima della metà del sec. XVIII, da Muammad ibn ‛Abd al-Wahhāb e ancor oggi colà fiorente, anzi imperante.

 Invece i wahhābiti dànno a sé medesimi il nome di neǵdiani, poiché appunto il Neǵd è il loro terrítorio principale e la culla del movimento, oppure quello di muwaḥḥidūn "gli affermanti l'unicità di Dio", con questo termine volendo affermare la purezza della loro credenza non inquinata dalle deviazioni ch'essi pensano trovarsi nella maggioranza degli altri musulmani sunniti e, peggio ancora, fra gli eretici sciiti.
Muammad ibn ‛Abd al-Wahhāb era nato intorno al 1703-1704 ad al-‛Uyainah (el-Ayeneh, Ayaina, ecc. nei libri e carte italiani), villaggio, ora in rovina, nella provincia neǵdiana al-‛Āri della quale oggi è capoluogo ar-Riyā, e là dal padre, qāī di scuola anbalita, fu iniziato agli studî teologici e giuridici, che poi andò a perfezionare a Medina ed al-Barah nella Mesopotamia meridionale. In quest'ultima città manifestò apertamente il suo stretto rigorismo, inveendo contro tutto ciò che era o gli sembrava essere deviazione dalle buone norme dell'islamismo antico; ma la sua irruenza in parole e in atti gli procurò tanti nemici, che fu costretto ad abbandonare la città in tutta fretta, per poi peregrinare nella provincia al-Asā' (lungo le coste arabe del Golfo Persico settentrionale) e infine ritrarsi nella provincia nativa a uraimilā, dove il padre si era frattanto stabilito. Compose alcuni opuscoli di carattere catechistico e di riprovazione di credenze e usi popolari ch'egli tacciava di paganesimo e politeismo; continuò pure la propaganda orale, benché con qualche moderazione dovuta a riguardo verso il padre contrario agli eccessi; ma, morto il padre nel 1740-41, si lasciò andare a tutta la foga della sua intransigenza, provocando forti reazioni e persino un opuscolo di suo fratello Sulaimān contro i suoi insegnamenti.
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In materia di dogmatica egli accettava senz'altro il catechismo di al-Arh‛arī, pienamente conforme alle dottrine del fondatore della scuola teologico-giuridica anbalita, ma respingeva, come innovazione riprovevolissima, il kalām ossia la teologia speculativa o razionale. In materia giuridica si professava anbalita come il padre e come la grande maggioranza degli abitanti dell'Arabia centrale. Nel rigorismo era seguace fedele dell'indirizzo quasi fanatico del famoso anbalita Ibn Taimiyyah (morto nel  1328 d. C.) e del costui discepolo Ibn Qayyim al-Giawziyyah (morto nel 1350), rinneganti ogni credenza e usanza che apparisse introdotta dopo la prima generazione musulmana o repugnante ai primi insegnamenti dell'islamismo, ed esigenti la strettissima applicazione delle norme rituali e giuridiche sia da parte dei singoli sia da parte dei governanti. Perciò l'ormai diffuso culto dei santi viventi o defunti, il credere nell'intercessione loro o di Maometto stesso per ottenere favori materiali in questa vita e in tale credenza il fare visite pie ai loro sepolcri e formare voti e invocare i loro nomi (incluso quello di Maometto), erano giudicati atti di shirk (politeismo), poiché implicavano il far condividere da esseri umani l'onnipotenza e il volere di Dio. In base a un detto attribuito al Profeta, si proibiva e dichiarava peccato capitale l'erigere mausolei sulle tombe (che invece dovrebbero appena sporgere dalla terra), il farne moschee per la preghiera canonica, il rivolgersi in Medina verso il mausoleo di Maometto orando. Ogni forma superstiziosa di culto, gli ex voto, ecc. erano dichiarati empietà; e in modo conforme alle prescrizioni d'ogni libro di diritto musulmano era vietato agli uomini di portar vesti di seta e oggetti d'oro e d'argento. Proscritte in modo assoluto le figure d'esseri viventi. Fin qui ogni teologo e giurista poteva convenire, ma a condizione d'escludere la qualifica di politeista (mushrik) o miscredente (kāfir) per il colpevole; tale qualifica, in diritto musulmano, mette fuori della legge chi l'ha veramente meritata se, dopo le esortazioni a ricredersi, persiste nel suo traviamento; la sua vita e i suoi beni diventano leciti ai credenti, il suo matrimonio decade ipso facto, si rompono i suoi rapporti ereditarî con i parenti, la sua testimonianza nei giudizî non può venir accolta. Onde è chiaro qual fonte di turbamenti gravissimi sarebbe stata nel sec. XVIII l'applicare con la forza e in modo completo il rigorismo intransigente d'Ibn Taimiyyah. Si aggiunga che il nostro Muammad ibn ‛Abd al-Wahhāb accettava anche l'altra dottrina del suo maestro ideale, respinta dalla grandissima maggioranza dei dotti, che fosse lecito scostarsi, in qualche punto del fiqh (somma delle norme rituali e della massima parte del diritto), dai precetti della scuola (madhhab) propria per aderire a quelli di un'altra delle quattro sunnite od ortodosse, qualora le norme dell'altra scuola in quel punto apparissero, dopo maturo esame, meglio fondate sulla sunnah di Maometto che non quelle della scuola propria.
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Muhammad ibn ‛Abd al-Wahhāb, appena morto il padre, non esitò ad aggiungere i fatti alla propaganda orale; fra l'altro non esitò ad abbattere con le proprie mani la cupola eretta sulla tomba d'un personaggio altamente venerato in un paese vicino e a far lapidare una donna che, in una crisi di pentimento, si era a lui dichiarata colpevole di fornicazione. L'animosità contro lui crebbe a tal punto da obbligarlo ad abbandonare i villaggi dove era vissuto sino allora e a riparare nel 1745 d. C., a ad-Dir‛iyyah (a nord-ovest di ar-Riyā), il cui emiro Muammad ibn Sa‛ūd sposò la sua causa, a favore della quale mise il suo braccio temporale. Fu un momento decisivo per il wahhābismo, che da semplice movimento di puritanismo religioso si trasformò in moto a un tempo religioso e politico-militare: secondo i principî wahhābiti, come si vide, tutti i non aderenti a essi erano considerati politeisti o miscredenti e il combatterli senza pietà, dopo averli invitati invano alla resipiscenza, era un dovere religioso, era un gihād ossia guerra santa. E la guerra infatti fu scatenata assai presto, nel1746 d. C., contro il potentissimo emiro di ar-Riyā fiancheggiato da molte tribù; guerra che dopo alterne vicende si concluse con la definitiva conquista wahhābita d'ar-Riyā nel rabī‛ II° 1187 (luglio 1773). Nel frattempo l'emiro Muammad ibn Sa‛ūd, divenuto il fondatore della dinastia sa‛ūdiana ancor oggi regnante, era morto (1765-66) e gli era succeduto il figlio ‛Abd al-‛Azīz, che aveva continuato la tradizione religiosa e guerriera paterna; a sua volta il fondatore del wahhābismo, che si era sempre limitato all'ufficio di propagandista e consulente in materia giuridico-religiosa e quindi non aveva mai assunto cariche politiche o militari, morì a ad-Dir‛iyyah alla fine del shawwāl (giugno-luglio 1792), con la soddisfazione di vedere tutta l'Arabia centrale unificata politicamente e convertita alle sue dottrine, e queste penetrare anche nel territorio di al-Asā', allora dipendente dall'Impero Ottomano.
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Gli stati limitrofi cominciarono a venire a patti con la crescente potenza dell'emirato sa‛ūdiano: sceriffi della Mecca, imām di Mascate, governatori turchi della Mesopotamia e della Siria si sentivano minacciati dalla guerra santa dei wahhābiti, i quali infatti nel dhū 'l-qa‛dah 1216 (marzo 1802) si spinsero in pieno ‛Irāq, saccheggiando la città santa sciita di Kerbelā', trucidandone gran numero d'abitanti e demolendovi la grande cupola, tutta ori e pietre preziose, eretta sopra la tomba di al-usain ibn ‛Alī, figlio di Fāimah, la figlia di Maometto. Il 4 muarram 1218 (26 aprile 1803) le truppe wahhābite occuparono la Mecca e per una quindicina di giorni vi attesero a demolire tutte le cupole sepolcrali e i mausolei venerati e oggetto di visite pie, con grave scandalo e terrore del mondo musulmano; non molto più tardi si ritirarono. Ma l'attacco al igiāz ricominciò nell'anno seguente; Medina fu costretta a capitolare e a riconoscere la sovranità wahhābita (aprile 1805); anche qui le tombe del cimitero alzate sulla terra furono abbattute e lo stesso mausoleo di Maometto fu spogliato delle sue ricchezze e dei suoi preziosi doni votivi. Nell'anno successivo la Mecca e Gedda venivano ridotte a dipendenze dell'emirato wahhābita, il quale andava sempre più estendendo le sue conquiste: intorno al 1811 i suoi dominî abbracciavano il deserto siro-arabico (fino in prossimità di Aleppo, di Damasco e della vallata dell'Eufrate) e tutta l'Arabia, eccettuati il Yemen propriamente detto (cioè esclusi l'‛Asīr e parte della Tihāmah yemenita), il aramaut e l'‛Omān. Il governo ottomano, gravissimamente preoccupato, affidò a Moammed ‛Alī, pascià d'Egitto, l'incarico di domare i wahhābiti. La spedizione egiziana, con molte difficoltà e in varie riprese e non senza sconfitte, condusse a termine il suo incarico in sette anni: iniziata nel 1811, liberò Medina nel 1812 e la Mecca nel 1813 e raggiunse completamente il suo scopo quando, dopo un assedio di cinque mesi, riuscì a far capitolare la capitale ad-Dir‛iyyah, il 9 settembre 1818. Il sovrano, ‛Abd Allāh ibn Sa‛ūd, si arrese; trasportato a Costantinopoli, vi fu decapitato. Alla loro volta le truppe egiziane sgombrarono in maggioranza il Neǵd nell'estate del 1819, pur lasciandovi reparti a guarnigione delle località principali, ad affermazione dell'alta sovranità turco-egiziana e a spegnere i focolari d'insurrezioni che di tratto in tratto si andavano formando per le rivalità e ambizioni dei membri della famiglia sa‛ūdiana; lo sgombero completo avvenne nel 1840. Il grande stato wahhābita si era ridotto al Neǵd meridionale, ché il igiāz era tornato al dominio turco, il Naǵrān e l'‛Asīr avevano riacquistato la loto indipendenza, e il Neǵd settentrionale, ossia lo Shammar, si era staccato dalla soggezione sa‛ūdiana costituendosi in emirato per opera di ‛Abd Allāh ibn ‛Alī ibn Rashīd, fondatore della dinastia degli Ibn Rashī?d nel 1835, ch'ebbe per capitale ā'il. L'emirato sa‛ūdiano, indebolito dalle lotte intestine e avente come capitale ar-Riyā dopo la distruzione egiziana di ad-Dir‛iyyah, passò in modo definitivo a un ramo cadetto della dinastia con Faial ibn Turkī nel 1843; ma la decadenza continuò al punto che, a partire dal 1881, lo Shammar andò aggregandosi sempre nuovi distretti della casa sa‛ūdiana, finché nel dicembre 1890 la battaglia di al-Mulaidah metteva in mano dell'emiro dello Shammar, Muammad ibn Rashīd, tutto il Neǵd.
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La potenza wahhābita sembrava annientata. Ma a farla risorgere tanto nel campo religioso quanto nella sfera politica provvide con vera genialità e grande energia l'attuale sovrano ‛Abd al-‛Azīz ibn ‛Abd ar-Ramān Āl Faial Āl Sa‛ūd, chiamato di solito semplicemente Ibn Sa‛ūd, e la cui riscossa si iniziò nel 1901-02, per culminare con la conquista della Mecca (13 ottobre 1924) e con la formazione del grande "regno arabo sa‛ūdiano", occupante la parte maggiore di tutta l'Arabia e avente un posto di prim'ordine nella politica internazionale nel vicino Oriente. Su tutto ciò v. ibn sa‛ūd, XVIII, p. 683; qui basti aggiungere che l'antico rigorismo wahhābita vige intatto ancora nel Neǵd, ma necessariamente ha subito attenuazioni nel igiāz, dove i musulmani non wahhābiti non vengono più designati quali politeisti e dove entrano i portati della civiltà moderna. Tuttavia nello stesso igiāz non si tollerano in pubblico l'uso della musica, del canto e del fumare tabacco, non si ammettono le confraternite religiose dei ūfī e le cerimonie a esse collegate, sono vietate case malfamate, si applica il diritto penale islamico nella sua integrità (compreso il taglio della mano al ladro), ecc. Nei tribunali del igiāz, come già prima in quelli del Neǵd, i codici modernizzanti d'altri paesi musulmani evoluti non hanno accesso (si è fatta eccezione solo per il codice di commercio, redatto su modello ottomano e pubblicato il 1° giugno 1931), e i giudizî devono attenersi alle norme della scuola anbalita.
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